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venerdì 22 Novembre 2024
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Così un giovane food blogger scrive appassionatamente della qualità del caffè in Italia

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TRIESTE – Al vasto dibattito in atto sulla qualità del caffè servito e bevuto in Italia, esacerbato dalla recente puntata di Report, si aggiunge una voce fuori dal coro: quella di Andrea Strafile, food blogger che collabora con Fine Dining Lovers ed Esquire. Strafile prende spunto per la sua analisi da una recente visita allo stabilimento illy di Trieste.

Di cui fa un racconto chiosato da considerazioni personali, alcune delle quali decisamente forti e discutibili, ma mai banali. Un pezzo insomma da leggere con discernimento e spirito critico. Ma anche con grande attenzione per la sua originalità. Vi proponiamo di seguito l’articolo tratto da Vice.com.

La sapete quella sul ragazzo in hangover? No?

Cosa fa un ragazzo in hangover per farselo passare? Visita una fabbrica di caffè. Non fa ridere per niente, me ne rendo conto. Ma è esattamente quello che mi è successo quando sono andato a visitare la fabbrica di Illy a Trieste.

La quantità da mettere è di 7 grammi e la pressione da esercitare è di 20kg. La macchina, invece, deve stare a 9 atmosfere. Il volume standard è di 20-25 ml per tazzina e spieghiamo che ogni regione ha le sue tradizioni – tra espressi lunghi o corti -, ma per avere una crema perfetta quella è la quantità.

Essendo un giovane ragazzo che ha ancora qualche ideale nel mondo del cibo e delle bevande, il mantra abbastanza scontato è: condanna dei grossi colossi dell’industria del food, sempre.

Quei tizi non fanno altro che fregarci con i loro prodotti misteriosi, della cui produzione non sappiamo nulla e immaginiamo essere creati in laboratorio da dottori malvagissimi

Quindi il mio cervello ha fatto molta fatica a elaborare tutte le informazioni quando si è trovato davanti la prova di una realtà industriale con numeri importanti, che fa fede a un unico, piccolo, centro di produzione, riuscendo comunque a vendere un prodotto onesto, lavorato al meglio delle possibilità.

Il caffè è tra quegli alimenti che in industria vanta un alto rischio di pessima qualità, riutilizzo di scarti di produzione e, cosa più vergognosamente importante, di sfruttamento in termini di manodopera e ambiente

Prima di iniziare un discorso sul lavoro che fa Illy sul caffè, bisogna parlare un attimo del mondo in cui opera

Il caffè è tra quegli alimenti che in industria vanta un alto rischio di pessima qualità, riutilizzo di scarti di produzione e, cosa più vergognosamente importante, di sfruttamento in termini di manodopera e ambiente. Questo ha ovviamente ripercussioni in primis sulla salute del pianeta, e secondariamente sul consumatore finale, che la maggior parte delle volte beve un brutto caffè.

Lì al bancone del bar. Qui, per evitare alla base che ci sia un brutto espresso e per garantire pratiche corrette, vengono selezionate le piante, i produttori, ma soprattutto si fa formazione. Sì, ai baristi, quelli dietro il bancone del bar.

Per cui uno degli aspetti che fa marciare le cose per bene è la trasmissione di cultura sul caffè:

da vent’anni Illy ha istituito una vera e propria Università del Caffè, che oggi conta 28 sedi sparse per il mondo. Aperta a professionisti, coltivatori e appassionati, da Trieste a Tel Aviv ci sono 120 insegnanti – che fanno un sacco di esami – che ti insegnano come estrarre perfettamente una tazzina di caffè, come degustarlo e che pressione mettere quando comprimi il macinato prima di attaccarlo alla macchina. “Ci sono più di 140 variabili in una tazzina di caffè”, mi dice Moreno. Quindi basta un niente per fare un casino. “La quantità da mettere è di 7 grammi e la pressione da esercitare è di 20kg. La macchina, invece, deve stare a 9 atmosfere. Il volume standard è di 20-25 ml per tazzina e spieghiamo che ogni regione ha le sue tradizioni tra espressi lunghi o corti, ma per avere una crema perfetta quella è la quantità.”

Mi sono sempre chiesto perché sia molto facile rimandare indietro un piatto venuto male, mentre per l’espresso ci si accontenta spesso di brodaglie bruciate.

Probabilmente perché costa poco e non abbiamo pretese, ma siamo pur sempre i più grandi cultori del caffè espresso, quindi non vedo perché accontentarci. Sta di fatto che ora lo sapete, cari baristi, eroi della mattina che servono centinaia di caffè a ripetizione ricordandosi gli ordini stravaganti di ogni essere umano ancora mostruoso per la sveglia pre-lavoro: fare una tazzina di espresso perfetta si può fare e se non la sapete fare, qui ve la insegnano in maniera metodica.

Alla base di un caffè di merda c’è in primis la miscela: se prevale la robusta e la marca ha un simbolo sconosciuto che rimanda a pupazzi messicani anni ’90 fatti male, già non ci siamo

Se siete dei feticisti del caffè espresso, lo sapete meglio di me:

quando ne volete uno e non c’è il vostro bar di fiducia a portata di mano, le possibilità di bere una schifezza sono alte. Se si è a Napoli, sarà troppo stretto, a Milano troppo lungo e in generale, in tutta Italia, sarà spesso una tazzina bollente buttata sul piattino al banco.

Rancida, acida o bruciata. Alla base di un caffè di merda c’è in primis la miscela: se prevale la robusta e la marca ha un simbolo sconosciuto che rimanda a pupazzi messicani anni ’90 fatti male, già non ci siamo. Ma se invece la miscela è quella giusta, sta tutto nelle mani del barista.

Il lavoro dietro a un chilo di caffè

“Spesso i baristi non si rendono conto di quanto lavoro ci sia dietro un kg di caffè, sanno solo che si vende a poco”, mi dice Moreno. In sostanza, per lavorare in fretta, il barista carica una quantità non precisata di caffè, lo attacca e fa partire l’estrazione, che si fermerà a seconda della mole di lavoro che ha o delle abitudini che ci sono in quella città. Ogni caffè deve avere la stessa grammatura, la stessa pressione del braccio e la stessa durata di estrazione. E lo riconoscete, perché ha una crema marroncina perfetta, a causa delle rotture delle molecole degli olii del caffè con l’acqua bollente. Se è arabica, fa una schiuma più densa, sappiatelo, perché ha più olii.

E se a parità di miscela, pressione, tempo e tutte le cose tecniche, il caffè viene diverso da un barista all’altro?

La macchina dell’espresso deve essere sempre pulita. Il calcare che si deposita fa passare meno acqua, meno potente e lo fa diventare acidulo, tendente al rancido. In più i granelli che rimangono incastrati nel filtro, ovviamente, vanno a male.

L’altra questione importante per cui si spende Illy è la sostenibilità e le corrette pratiche di lavoro:

i prezzi dei chicchi non tostati, subiscono cambiamenti così drastici, che non è difficile incontrare periodi dove la vendita dal contadino all’azienda lascia al primo un margine di guadagno di un centesimo per tazzina.

Senza contare i numeri che implicano una deforestazione e un impatto sul clima sconcertante:

per dirne una, nel solo Brasile, dove viene prodotta la maggioranza di varietà robusta (tendenzialmente quella con più caffeina e meno olii), i campi dedicati alla coltivazione di caffè coprono 2.400.000 ettari.

Ecco, Illy ha scelto di non alimentare questa politica di sfruttamento, per nessuna ragione al mondo. Tanto da aver vinto, per sette anni di fila, il premio “Most Ethical Company Awards”, unica italiana e unica azienda di caffè. “Siamo i piccoli tra i grandi”, ha detto Daria Illy, nipote di Ernesto Illy e ambasciatrice del caffè nel mondo, quando sono andato a visitarli.

Mi hanno detto che a passare vicino alla fabbrica Illy, sarei stato invaso dal profumo del caffè appena macinato

Non ho sentito alcun profumo, ma in compenso, nella hall, ho potuto bere un caffè espresso davvero buono, seguito da un altro e un altro ancora. La mia emicrania ha ringraziato molto (vi ricordo che sono in hangover).

Per chi non ne avesse idea, Illy è tutt’ora uno dei massimi esempi di un’azienda a conduzione familiare. Un po’ come Varnelli nel mondo alcolico. Ed è fermamente convinta che l’unico modo per essere parte dell’eccellenza sia quello di lavorare puliti e fare cultura.

Fondata nel 1933 da Francesco Illy a Trieste, ha continuato a passarsi di generazione in generazione fino a quella attuale, la quarta, senza mai perdere un colpo. Si sono inventati delle cialde monoporzione prima che le vostre Nespresso fossero state minimamente pensate, nel 1974. Hanno brevettato la macchina per l’espresso da bar, così per dire.

Tutto ciò facendo un lavoro sulla qualità:

i produttori che li riforniscono vengono scelti dopo una visita sul campo, che prevede controlli e suggerimenti di pratiche agricole all’avanguardia.

“Il lavoro sulla sostenibilità è iniziato con il lavoro sulla qualità”, dice Moreno Faina, coordinatore didattico dell’Università del Caffè che hanno in sede. “Il blend, dagli anni ‘70 è di nove varietà di caffè esclusivamente arabiche, che vengono da India, Brasile, Costa Rica, Guatemala, Colombia ed Etiopia.”

In ognuna di queste piantagioni passa regolarmente un agronomo che parla la lingua locale e si accerta che le pratiche agricole siano rispettate e pulite. “Per dare un ulteriore incentivo agli agricoltori, abbiamo istituito anche una challenge che premia il coltivatore più corretto dell’anno. L’anno scorso l’ha vinta una ragazza del Rwanda,” mi dice Daria Illy. Oltre alla sostenibilità, Daria si spende in prima persona per la questione femminile. Il primo ottobre dell’anno scorso, nell’International Coffee Day, ha fatto servire nei bar di mezza Italia solo mezza tazzina di caffè “perché senza le donne che lavorano non avremmo metà della tazzina che beviamo.” Sostiene associazioni di coltivatrici in Colombia e ha istituito programmi di formazione sul caffè in Etiopia.

“Scusi ma quella è una macchina che distribuisce crema di caffè gratis???” faccio a Moreno prima di andarmene.

“Sì, certo, assaggiala pure.”

E fu così che con 15 caffè in corpo, tra espressi, Cold Brew, Monorigine e Filtro, ho preso una cucchiaiata di crema di caffè. Poi due. Poi mi sono leccato il bicchiere.

E finalmente potevo andare. Felice. Senza hangover, ma schizzato come un gatto in quei suoi momenti di follia.

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