MILANO – Il caffesperto Andrej Godina fa il punto sullo stato dell’arte del caffè italiano tirando le somme di un viaggio fatto attraverso la penisola per valutare la qualità media della tazzina nei bar e nei caffè di casa nostra. Tutto questo in un’intervista pubblicata sul notiziario di Host, di cui vi proponiamo di seguito i passaggi salienti.
Cominciamo dall’Italia…
Caso unico nel bene e nel male. Il mese scorso l’ho passato in giro per il Paese tra Milano, Firenze, Roma, Napoli. Volevamo capire a che punto era la qualità della tazzina, cinque anni dopo il nostro precedente viaggio. Ne è risultato un quadro tutto sommato positivo: la qualità è migliorata, sia della materia prima sia nell’esecuzione. Ma in media non arriviamo ancora alla sufficienza. Anche se va detto che nella mia valutazione, che è quella di controllo qualità da assaggiatore in laboratorio, la presenza di Robusta, con i suoi sentori di legno, terra e a volte muffa è considerata un difetto. La cosa interessante è che a macchia di leopardo stanno nascendo tante caffetterie specialty.
Come si definisce uno specialty?
Per una materia prima di grande pregio e tracciabile, della quale il barista possa definire da dove viene la pianta, la varietà, il produttore e il processo.
Nel frattempo è arrivato Starbucks…
Che ha portato in Italia innovazione. Nella Roastery milanese si beve un espresso non reinventato ma rivisitato dopo aver fatto il giro del mondo. Secondo me è la più moderna rappresentazione dell’espresso tradizionale. E soprattutto, la Roastery è un luogo di formazione ed educazione del consumatore, una sorta di scuola esperienziale.
Però il consumatore italiano è abituato al suo caffè.
L’espresso italiano è fatto di due cose: la bevanda, che però è assai diversa a Napoli e a Bolzano, e soprattutto il rito, l’ordine al banco, la tazzina preparata espressamente, la chiacchiera con il barista. La bevanda non è sempre impeccabile, ma si beve ciò a cui sei abituato.
E per rompere la cultura dell’abitudine sono necessari due/tre interventi in cui il consumatore viene guidato dal barista. È un lavoro che difficilmente fa da solo.
Va detto che la specialty coffee community ha creato un piccolo mercato di nicchia che si sta allargando, anche grazie a grandi aziende che stanno lavorando per comunicare al cliente la qualità.
E ormai quasi tutte le torrefazioni propongono un metodo alternativo o un monorigine. Il barista invece resta schiacciato in un contesto in cui si propone un caffè unico a un euro. Spesso non gli vengono riconosciute una professionalità e un compenso adeguati, come negli altri Paesi. Dove però il caffè costa magari 4 o 5 euro. Però noto che le cose stanno cambiando, vedo timidi segnali di miglioramento.
Come vedi il futuro del caffè in generale?
A livello globale è tragico, il prezzo stabilito dai futures non copre i costi di spedizione e spesso i piccoli coltivatori, che non tengono una contabilità, non ne sono consapevoli. Sono piccole realtà che soffrono di mancanza di liquidità, in Centro America vedo tanti ragazzi che emigrano in Usa o Spagna, il comparto si sta impoverendo e a breve tante aziende scompariranno a passeranno a coltivazioni più redditizie. Il business si concentrerà in grandi piantagioni industriali, che limiteranno la diversità e punteranno sempre più – lo fanno già – sulla coltivazione di Robusta, più redditizia e meno problematica.