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venerdì 22 Novembre 2024
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La pianta del caffè, dalle bacche alla tazzina, una storia ancora tutta da scoprire, scrive Il Post

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MILANO – Il Post  è uno dei più importanti siti di approfondimento giornalistico in Italia. Forse il migliore e il meglio documentato. Non a caso comparare nella classifica dei siti di notizie più letti in assoluto, grazie a queste invidiabili, quanto sempre più rare nell’epoca del web, qualità. Per tali premesse, riportiamo volentieri  l’articolo che segue e che tratta temi in larga parte già conosciuti per i lettori. Ma è sempre necessario anche affrontare gli stessi argomenti proposti dal punto di vista di altri, sia giornalisti che i non addetti ai lavori. E’ un po’ una provocazione che è in circolo online e riguarda il protagonista assoluta della filiera del chicco: la pianta del caffè.

Secondo i dati dell’International Coffee Organization

Nel 2016 in Italia abbiamo consumato 5,8 chili di caffè a testa, con una media di 3,1 tazzine al giorno. Circa l’87 per cento di chi lo beve lo fa a casa; il 73 per cento lo prende anche in uno dei 150 mila bar presenti in Italia.

Anche senza questi dati conosciamo bene la centralità della cultura del caffè in Italia, ma pochi saprebbero far risalire i chicchi abbrustoliti e profumati alla pianta da cui sono stati raccolti. Che è quella con le bacche verdi o di un rosso brillante.

La ragione si deve in parte al fatto che l’Italia non coltiva caffè

In effetti lo importa quasi interamente dai principali produttori. Come Brasile, Vietnam, India; Uganda, Indonesia e Colombia. L’Italia è infatti il secondo importatore al mondo di caffè verde, cioè crudo. Il quale viene poi tostato in una delle 700 torrefazioni del paese, venduto sul mercato interno o esportato.

La lavorazione del caffè inizia da paesi lontani, richiede tempo e tecniche accurate. Per cui giustifica l’euro che lasciate sul bancone del bar andandovene, chiedendovi perché quei due rapidi sorsi costino così cari.

Bacche di caffè e chicchi tostati nella torrefazione Hacienda San Alberto, a Buenavista, in Colombia
(Sergi Reboredo/picture-alliance/dpa/AP Images)

Sui rami della pianta del caffè spuntano in pochi giorni foglie, fiori e piccole bacche tondeggianti

Essi richiedono invece molto tempo per maturare, passando da un colore verde, al giallo, al rosso brillante: si parla di sei-otto mesi per la qualità Arabica e tra i nove e gli undici per quella Robusta.

A quel punto possono essere raccolte: per le varietà meno pregiate avviene meccanicamente o con il metodo detto stripping; passando cioè una mano sul ramo e trascinando via bacche, foglie e fiori; per quelle più pregiate si usa invece il picking, con il raccoglitore che sceglie ogni singola bacca.

Il frutto del caffè si chiama drupa e ha al suo interno due chicchi avvolti da una polpa dolce e biancastra e poi da due pellicole. Una più dura detta pergamino e una più sottile, detta membrana argentea.

Una volta raccolte, le drupe vengono fatte seccare

Quelle delle qualità più comuni vengono lasciate al sole e rimestate finché sono completamente essiccate; vengono quindi frantumate per estrarne i semi.. Le drupe pregiate vengono messe in enormi vasi d’acqua dove i chicchi vengono liberati dal guscio e lasciati a fermentare tra le 12 e le 48 ore.

Quindi lavati, essiccati al sole e ulteriormente selezionati. Per smistarli si usa il crivello, una lastra con fori dalle dimensioni standardizzate che ne classificano la qualità. Il caffè così ottenuto è detto verde e viene solitamente esportato nei paesi in cui verrà tostato, come appunto l’Italia.

Arrivati in torrefazione

I chicchi sono inseriti inseriti nella tostatrice per 10-20 minuti a 200-250 gradi, a seconda del risultato che si vuole ottenere. Qui, grazie al calore e a reazioni come quella di Maillard (quella famosa per la carne), i chicchi perdono il 15-20 per cento del loro peso. Aumentano di volume e diventano scuri per la carbonizzazione della cellulosa e la caramellizzazione degli zuccheri. In breve, da insapori acquistano tutte le sfumature di gusto che conosciamo.

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