MILANO — L’inaugurazione del primo Starbucks italiano ha suscitato vive polemiche anche tra i lettori del Giornale. Al di là degli aspetti politico-sovranisti e identitari, il rapporto problematico tra il quotidiano fondato da Indro Montanelli e la catena americana ha motivazioni antiche e presenta curiosi ricorsi storici, legati anche al nome della testata.
Ne parla Maurizio Stefanini in un’interessante analisi per neXt Quotidiano, che vi proponiamo di seguito.
“L’inaugurazione di Starbucks crea malcontento”, è stato il modo in cui la pagina Facebook del Giornale ha titolato sull’arrivo a Milano della più importante catena di caffetterie al mondo: ben 28 720 punti vendita in 78 paesi, di cui oltre 12.000 negli Stati Uniti.
È una ciofeca!
E i lettori hanno fatto eco con toni che evocavano quasi la famosa battuta di Totò in I due marescialli. Quando sputa il liquido appena sorbito dalla tazzina gridando “è una ciofeca!” .
“Ma con tutta la nostra tradizione in prodotti certamente di qualità più elevata bisogna proprio far la coda per starbucks?”, si lamentava ad esempio uno.
“Come si fa ad aprire un cesso del genere nella patria dell’ espresso?”, chiedeva un altro. Come si possono chiamare gente che va a fare la fila durante una giornata lavorativa per pagare una mazza un caffe schifoso? Cretini? Mah, non basta secondo me”, proclamava un terzo.
E così via. Una linea critica che il quotidiano fondato da Indro Montanelli peraltro mantiene da quando fu annunciato la futura inaugurazione del locale di piazza Cordusio. E legata, in particolare, alla battaglia simbolo contro le palme che la giunta Sala ha fatto sponsorizzare a Starbucks.
“Palme imbiancate e banani morti, per Sala è poesia”, è ad esempio un titolo di marzo. “Spuntano le palme in Duomo E Milano si sveglia africana”, un altro titolo del 16 febbraio 2017 , accompagnato sempre sul Giornale da un anatema di Vittorio Sgarbi: “Milano, Africa – Palme in Piazza Duomo, Città Perplessa”.
La relazione complicata tra Starbucks e il Giornale
Non è che solo il Giornale ha fatto questa battaglia. Ma nel suo caso la cosa è particolarmente curiosa per il fatto che in realtà all’inizio Starbucks si chiamava proprio… Il Giornale! Il nome fu usato per ben sette anni: tra 1985 e 1992.
Più o meno, coincidenti con culmine e fine della gestione di Indro Montanelli, che dopo essere stato protagonista del passaggio dalla Prima alla seconda Repubblica, con l’appoggio ai referendum di Segni e a Mani Pulite, sarebbe stato defenestrato all’inizio del 1994.
Non era un caso: la catena utilizzava un logo che era identico a quello del quotidiano, e ammetteva anche l’ispirazione, dicendo che si trattava del “più autorevole quotidiano italiano”.
Ed ecco qui dunque una prima bizzarria: una catena che nasce facendo omaggio a un giornale che quando arriva nella sua città lo aggredisce nel modo più astioso. Ci sembra, senza mai aver spiegato ai suoi propri lettori questa curiosa situazione.
Bizzarrie e assonanze curiose
Ma ciò all’interno della bizzarria più grande: come mai Starbucks aveva preso il nome dal quotidiano di un Paese dove in 47 anni di esistenza – 26 col nome attuale – finora aveva sempre evitato accuratamente di affacciarsi? Il fatto però è che non c’è solo il passato col logo Il Giornale in Starbucks, di italiano.
Sapete come si chiama ad esempio il dipendente Starbucks che dopo 20 ore di tirocinio è in grado non solo di preparare i differenti caffè ma anche di spiegarne ai clienti l’origine? Barista! Plurale però in inglese: Baristas.
Se la tazza piccola viene chiamata all’inglese Tall, quella media è invece Grande e quella grande Venti, mentre Trenta arriva quasi a un litro. Un italiano altrettanto avventuroso dell’inglese con cui in Italia chiamiamo le auto decappottabili Spider: con un termine che nel West si usava anche per un tipo di carrozza, ma oggi si usa in lingua originale solo per gli aracnidi.
Ma comunque italiano. Anche Latte indica il caffellatte, e Starbucks serve poi dei più o meno canonici Espresso, Cappuccino, Macchiato, Americano. Che poi assomiglino di sapore agli originali, è materia di dibattito. C’è anche il Breve, e c’è il Frappuccino: che italiano non è, ma lo suona.
Il legame tra Starbucks e l’Italia
“Una volta si diceva: quel che va bene per General Motors, va bene per l’America. Ora è quel che va bene a Starbucks che va bene per l’America”, spiegò nel 2009 la rock star Alice Cooper in un’intervista a Esquire.
“Lo Starbucks moment non è solo il momento speciale promesso dalla pubblicità ai consumatori della più grande società di caffetterie del mondo, ma anche un momento della storia degli Stati Uniti”, ha scritto lo storico Bryant Simon nel suo libro del 2011 Everything But the Coffee: Learning about America From Starbucks.
Insomma, Starbucks è un’icona a Stelle e a Strisce ormai debordante “negli aeroporti e nei centri commerciali, nei parcheggi e agli angoli delle strade, su YouTube, MySpace e sulle pagine di Facebook, in ‘Shrek 2’ e in ‘Ti presento i miei’, nelle puntate dei Simpson e in quelle di Sex and the City”.
Americano, ma globalizzante
E negli ultimi anni rivolto in particolare a convertire al caffè le terre del tè asiatiche. In più nella sua idea di assicurare ai clienti un prodotto di sapore delicato, cioè caffè di tipo rigorosamente Arabica e non Robusta, si rifornisce in America Latina e Africa.
E di recente ha fatto un fondamentale accordo di commercializzazione con la svizzera Nestlé. Il fatto però è che in realtà l’idea di quel tipo di caffè ai fondatori era venuta proprio passando per l’Italia.
Starbucks, insomma, non è altro che il caffè all’italiana adattato al gusto yankee e distribuito da una multinazionale yankee. Per questo ha avuto tante esitazioni a presentarsi da noi. La stessa – più o meno – che aveva avuto Sergio Leone a presentare i suoi spaghetti western nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti.