Nel 2006 fu il momento delle agaseke, le tradizionali ceste colorate: il progetto “Rwanda Path to Peace” portò l’artigianato del paese a livelli di esportazione mai conosciuti fino ad allora. Ne risultò un brand ed un branch del commercio equo-solidale ormai affermato, specie negli Stati Uniti; ne risultò un vantaggio economico nazionale; ne risultò soprattutto un ulteriore tassello verso la “ricostruzione” di un’unità sovraetnica mai dimenticata.
Pil procapite Ruanda
Ruanda – Pil pro capite dal 1961 al 2010
Nel 2016 l’esperienza si ripete con l’affermarsi, sui mercati internazionali, del caffè prodotto a Kigali da una cooperativa di donne, hutu e tutsi insieme, coadiuvate dalla ONG Fondazione Avsi.
Daphrose, ruandese, 55 anni, è la presidente della società che da dieci anni lavora per aggiungere un altro importante pezzo alla storia della ripresa del Ruanda post-genocidio. L’iniziativa raccoglie 140 donne, di ogni età e registra un impatto in termini di riduzione della povertà che si somma e contribuisce al programma governativo di sviluppo Vision 2020, una visione, appunto, di un futuro Ruanda più unito e a reddito medio.
Si tratta di esempi di resistenza attiva che queste donne, fortemente scisse dalla terribile esperienza del genocidio, di cui furono vittime e carnefici, mettono sistematicamente in atto contro le forti spinte del ‘divide et impera’ che da sempre agiscono, più o meno sotterraneamente, nel mondo africano e non solo.
Women-of-the-basketEsser madre, moglie, figlia o sorella, esser semplicemente una donna che ha subito o agito nell’orrore, e lavorare con un’altra donna, anche lei madre, moglie, figlia o sorella di qualcuno che è stato ucciso da un membro della comunità di chi ti siede accanto ha l’alone di un gesto profondamente rivoluzionario. Un gesto che non ha solo a che fare con la dimensione privata del perdono.
Definirsi in seno alla propria comunità, a partire da un fare che non preveda un risultato circoscritto esclusivamente all’interesse personale ma che guardi al benessere collettivo, non rappresenta tuttavia una novità all’interno del panorama sociale africano, né rappresenta un’eccezione il fatto che questo fare sia operato di volti e mani femminili.
Le donne ruandesi sono infatti educate ad intendere il proprio lavoro, sia esso agricolo e/o domestico, come qualcosa di reciproco e giuridicamente solidale. In altre parole, come sostiene l’antropologa mantovana Anna Casella, in molte società rurali africane le attività che la donna svolge quotidianamente già nel nucleo familiare sono intese come un “dono” quasi obbligato, un sacrificio insomma, che viene ricompensato e giustificato dalla trama delle relazioni nelle quali la donna stessa è inserita, non molto diversamente da quanto accade ad una qualsiasi donna che ha famiglia.
La novità del caso risiede piuttosto nella consapevolezza del “dono” che queste esperienze recano con sé, del loro valore pubblico e privato: un ‘fare insieme’ che diventa dunque stimolo condiviso al miglioramento. Non siamo cioè più dinanzi a forme di pura dipendenza materiale e sociale, ma al contrario ciò che vi ritroviamo è l’azione creativa indipendente, la libertà del mettere a disposizione di un progetto più ampio, che va oltre le divisioni interne, ciò che si è in grado di fare bene insieme.
Le donne del Ruanda non hanno più bisogno di perdonare. Non dimenticano, e quando ricordano, è soprattutto per continuare ad intrecciarsi e a seminare.
Francesca Schiavo Rappo per MIfacciodiCultura